/ Novembre 21, 2008/ Blog, In Libreria/ 0 comments

A 17 anni dall’implosione dell’Unione Sovietica e nonostante la miriade di saggi, libri e articoli di storici e giornalisti che ce ne hanno raccontato la storia, la vita politica, lo spaventoso sistema autoritario e repressivo, poco o nulla sappiamo della vita quotidiana dei suoi abitanti. Come si vestivano, cosa mangiavano, cosa studiavano a scuola, che musica ascoltavano, quali erano i loro miti? Insomma, come vivevano i russi in Unione Sovietica?
Allo stesso modo poco sappiamo – anzi, fatte le debite proporzioni e considerando l’esistenza delle tv satellitari e di internet, forse ancora meno – della vita quotidiana in Russia negli anni Novanta e nei primi anni Duemila.

Il volume Lenin. Dalla Pravda a Prada: storie da una rivoluzione, scritto a quattro mani dalla studiosa russa di cultura italiana Anna Jampol’skaja e dallo studioso italiano di cultura russa Marco Dinelli, è un volume utile e prezioso, oltre che di gradevolissima lettura, perché ci aiuta a conoscere proprio questi aspetti trascurati, o poco conosciuti al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori, del complesso pianeta Russia.

Si tratta infatti di un saggio divulgativo articolato in brevi articoli a sfondo autobiografico tesi ad accompagnarci in un viaggio nel tempo per mostrarci le varie sfaccettature della vita di tutti i giorni nella Mosca degli ultimi tre decenni.

I due autori ci portano in mondi che conoscono bene non solo per esperienza diretta – parlano di realtà in cui sono vissuti e che hanno vissute – ma che per ognuno di loro hanno anche significati particolari.
Infatti Anna Jampol’skaja nella prima parte, “La Russia ai tempi di Celentano (URSS)”, parla dell’Unione Sovietica della sua infanzia e della sua adolescenza negli anni ’70 e ’80.
E Marco Dinelli nella seconda parte, “Guerra fredda 2.0”, racconta la Russia post sovietica dove, per studio prima e per lavoro poi ha scelto di trasferirsi a vivere.

Questa peculiarità, insieme al fatto che gli autori non siano degli storici ma dei docenti di letteratura e traduttori, fa sì che il libro non sia solo un saggio ma anche una bella raccolta di racconti.
Tutti gli articoli sono costruiti e scritti come piccole cronache di vita vissuta, ora buffe, ora ironiche, ora stralunate, ora più amare e ciniche. Leggendole si ride, si riflette, si sorride, si scuote la testa, proprio come si farebbe sentendo raccontare da un bravo e vivace narratore le sue esperienze di vita quotidiana in un luogo dove non siamo mai stati.

Così, davanti ai nostri occhi vediamo scorrere, tracciate con tocco leggero e con quell’understatement che caratterizza tanta tradizione del racconto russo soprattutto del Novecento, le immagini di due mondi tra loro, allo stesso tempo, vicinissimi e distanti anni luce.

La Russia ai tempi di Celentano (URSS)
Il primo mondo, quello raccontato da Anna Jampol’skaja, è un mondo paradossale e contraddittorio dove l’ironia, l’umorismo e, soprattutto, una straordinaria arte di arrangiarsi e di fare di necessità virtù sono le uniche armi per sopravvivere.

Un mondo in cui, attraverso le sue parole, vediamo l’onnipresenza di statue, lapidi e immagini di Lenin; e quella delle lunghe file davanti ai negozi.
In cui sentiamo risuonare le note del “Lago dei cigni” ogni volta che muore un “pezzo grosso”; e in cui, insieme a lei e a milioni di altri bambini russi, ci annoiamo mortalmente il giorno dei funerali di Brežnev, costretti a seguire a scuola per un’intera giornata Il lago dei cigni e le cerimonie trasmesse dalla tv.

Un mondo in cui la vediamo partecipare alle “lezioni di lavoro” obbligatorie a scuola: i corsi dedicati alla preparazione del minestrone o alla riparazione del ferro da stiro; la pulizia della scuola; il tirocinio nelle fabbriche e nelle fattorie.
E se mentre la narratrice adolescente pulisce la scuola finiscono gli stracci, come lei non ci stupiamo se, per lavare la statua di Lenin dell’atrio, vediamo la bidella consegnarle come straccio un suo grosso, vecchio reggiseno.

Un mondo in cui, con l’autrice adolescente, siamo ossessionati dalla paura di una guerra e di un attacco nucleare e, a scuola, la vediamo seguire le lezioni di addestramento militare:
La maschera antigas non la sopportava nessuno. A scuola la mettemmo solo una volta ma fu più che sufficiente. […]
Provate un po’ a immaginare la scena. Un’aula di scuola con una ventina di banchi. Dietro ogni banco, due allievi. Con la maschera antigas. Piccoli elefanti con una corta proboscide alla quale era attaccato un grosso barattolo verde. Silenzio totale, visto che quell’aggeggio impediva qualsiasi comunicazione. Per quarantacinque minuti. Addestramento militare.” (pp. 46 – 47)

Guerra fredda 2.0
Il secondo mondo, quello raccontato da Marco Dinelli, è un mondo più sfuggente e difficile da descrivere, molto più ambiguo e contraddittorio perché è un mondo in transizione, dove accanto al nuovo coesistono tanti aspetti del vecchio, in una duplice trasformazione da mondo sovietico a mondo degli oligarchi degli anni ’90; e da questo al mondo di Putin degli anni 2000.
Un mondo dove la caduta delle vecchie regole, insieme al grande entusiasmo iniziale per la libertà, la gioia di vivere, la scoperta della sessualità libera, ha portato anche a un’assenza di regole dove tutto sembra lecito. E all’esasperazione del mito dei soldi facili, della dolce vita, del lusso sfrenato, della megalomania degli arricchiti “nuovi russi” degli anni ’90.

E’ un mondo che, per dirla con le parole usate da Dinelli stesso in un’autointervista, ricorda molto il nostro visto in uno specchio deformante.
Quando leggiamo le sue descrizioni di uomini che si sono immensamente arricchiti in poco tempo e che non pagano le tasse; di ragazzi che si fanno comprare la patente e l’esame d’ammissione all’università dai genitori; di docenti universitari che non si fanno scrupoli ad accettare regali dai genitori degli studenti, come non pensare a quello che si legge sulle cronache giudiziarie italiane quando scoppia uno dei nostri tanti scandali?

Negli ultimi 30 anni tutto è cambiato ad una velocità sorprendente ma quello che rimane uguale e che rende unica la Russia in Europa, ci dice Dinelli, è la sua energia, la sua capacità di sognare e di avere il mito di se stessa:
Prima c’era stato il sogno del comunismo, poi, finito quel sogno, ne era cominciato un altro, quello dei soldi e della dolce vita. Poi si aggiungerà, più tardi, durante il primo decennio del nuovo secolo, quello della stabilità. E non ci si riesce a svegliare.
Però questa pulsione, quest’energia che si libera negli spazi sconfinati della Russia, terra, come l’America, di mitologie e megalomanie, questa capacità di sognare e di osare, dicevo, è una cosa che noi europei non abbiamo più
” (p. 170).

E cosa può illustrare meglio il sogno russo, il percorso della Russia da se stessa a se stessa, del mito dei propri uomini politici?
30 anni fa l’URSS viveva nel mito, più o meno imposto, di Lenin. Oggi in quello, orgogliosamente rivendicato, di Putin, il potente politico divenuto anche sex symbol per le donne russe..
In URSS le ragazze sognavano Adriano Celentano e ne cantavano le canzoni.
In Russia oggi le ragazze cantano una canzone che dice che vogliono un uomo come Putin.

Autori: Anna Jampol’skaja – Marco Dinelli
Titolo: Lenin. Dalla Pravda a Prada: storie da una rivoluzione
Editore: TEA 2008, Collana Neon!, pp. 186

Scritto da Vianne

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